Maggio 13, 2022
Quando pensiamo ai cambiamenti epocali che la pandemia del COVID-19 ha apportato alle nostre vite, raramente tendiamo a includere nella lista anche il contact-tracing. Vuoi perché in Italia il dibattito sul tema è stato relativamente ridotto o riservato agli “addetti ai lavori”; vuoi perché meno radicale rispetto a misure senza dubbio più restrittive delle nostre libertà personali, il tracciamento dei contatti sembra esser stato maggiormente tollerato dalla collettività.
È fondamentale fare un’analisi critica su come questa misura possa far sorgere questioni di natura etica, oltre che questioni di privacy. In particolare, ci si deve interrogare come questo strumento possa essere democratico e inclusivo, adatto ad una società in cui nessuno rimane indietro o è considerato cittadino di serie B.
Alla luce di ciò, e della mancanza di studi in materia nel panorama italiano, Privacy Network ha deciso di condurre una ricerca con l’obiettivo di carpire a tutto tondo i vantaggi e gli svantaggi di questo strumento, cercando di avere un respiro internazionale. La ricerca verrà pubblicata in una serie di articoli, a cadenza regolare.
Parte 1: Tracciamento dei contatti, le origini
Parte 2: Il contact-tracing nel XXI secolo: dalla MERS al COVID-19
Parte 3: L’approccio europeo e italiano al tracciamento dei contatti
Parte 4: Il tracciamento dei contatti fuori dall’Italia
Parte 5: Il tracciamento dei contatti: questioni etiche
Autore: Dipartimento Ricerca
Se l’osservazione delle iniziative sviluppate dai vari Paesi europei aiuta a chiarire il quadro delle misure adottate contro la pandemia e le ragioni per le quali certe scelte sono state preferite ad altre, si rimane tuttavia ben lontani dal comprendere quale sia stato l’impatto dell’applicazione del tracciamento dei contatti su tutti i cittadini (e sui loro dati).
In particolare, a restare poco approfondite sono le misure adottate dai privati, per esempio nei luoghi di lavoro, dove si è profilata la necessità di verificare e monitorare lo stato di salute dei dipendenti ben prima dello sviluppo di soluzioni a livello statale. Al fine di poter approfondire l’impatto del COVID-19 nei luoghi di lavoro in Italia, abbiamo quindi scelto di elaborare un questionario da diffondere inizialmente tra i nostri associati e poi al più vasto pubblico raggiungibile tramite i canali social di Privacy Network. I risultati di tale indagine sono descritti in questo articolo.
Contesto e dati demografici
Il questionario è stato strutturato in quattro sezioni (informazioni personali, tracciamento dei contatti, fuori dall’Italia e altre osservazioni) e una coda specificamente destinata a registrare la disponibilità a partecipare ad un’eventuale intervista più specifica, per un totale di 47 domande. La possibilità di rispondere alla parte centrale del questionario era subordinata alla soddisfazione della condizione di lavoro in Italia, che costituiva la prima domanda del questionario.
Dopo una sessione preliminare di prova per verificare la comprensibilità delle domande e la fattibilità del questionario in termini di quantità di tempo necessaria a compilarlo nella sua interezza, il questionario è stato diffuso attraverso gli strumenti di comunicazione a disposizione di Privacy Network.
Il questionario è stato inizialmente diffuso tra gli associati attraverso il gruppo Telegram dedicato e tramite posta elettronica; in una seconda fase, è stato promosso sui canali social di Privacy Network (LinkedIn, Twitter, Instagram) e tramite la newsletter, con l’invito a diffonderlo tra i contatti dei rispondenti. Il questionario è rimasto aperto per una finestra temporale di tre settimane, dal 29 ottobre al 22 novembre 2021, e ha registrato un totale di 97 risposte.
Come mostrato in Figura 1, la maggior parte dei rispondenti al questionario risulta residente e/o impiegato in regioni del Nord Italia. In particolare, ad essere maggiormente rappresentata è la Lombardia (43% dei rispondenti), seguita da Emilia-Romagna (12%) e Trentino Alto-Adige (11%). Si contano invece appena due rispondenti da regioni dell’Italia meridionale (uno dalla Campania e uno dalla Puglia). Sette rispondenti hanno invece indicato di non essere attualmente residenti in Italia, e non hanno quindi contribuito alla porzione di questionario relativa al nostro Paese.
Dal punto di vista dei settori lavorativi dei rispondenti, invece, si registra una maggiore varietà. II settori più rappresentati risultano essere, come evidenziato in Figura 2, Impresa e consulenza aziendale (19% dei rispondenti) e IT e media (15%). Risultano mediamente presenti lavoratori in alcuni ambiti fortemente colpiti dalla pandemia, come Sanità (5%), Industria e trasporti (5%), e Turismo e ristorazione (3%); sottorappresentati sono invece settori fondamentali come Agricoltura e ambiente e Sicurezza e pubblica amministrazione, che contano rispettivamente uno e due rispondenti.
Misure anti-Covid nelle aziende: tracciamento o semplice formalità?
I partecipanti al questionario hanno indicato, con schiacciante maggioranza (95% dei lavoratori residenti in Italia), una generale adozione di qualche tipo di misura volta a limitare la diffusione del COVID-19 sul proprio posto di lavoro, come indicato in Figura 3.
Nella maggior parte dei casi, inoltre, le aziende hanno adottato misure aggiuntive rispetto a quanto indicato a livello statale, tra cui i rispondenti indicano autodichiarazioni, screening con il medico aziendale e vari protocolli interni. Tuttavia, come mostrato in Figura 5, solo il 35% delle misure ha incluso qualche tipo di raccolta di dati, segnalando che la maggioranza delle misure adottate non ha riguardato strettamente il contact-tracing, quanto piuttosto il mantenimento delle distanze raccomandate e l’uso dei dispositivi di sicurezza raccomandati (e.g. mascherine).
I casi nei quali, invece, vi è stata raccolta di dati mostrano una prevalenza di raccolta dei dati anagrafici (40%), spesso accompagnati da dati sanitari (37%), come in Figura 6. Quest’ultimo caso è quello che più plausibilmente evidenzia situazioni in cui è stato tentato un tracciamento dei contatti, verificatosi quindi nell’11% dei casi rispetto al totale dei rispondenti.
Un dato interessante è rilevato dalle modalità con le quali i dati sono stati raccolti. Se nel corso della pandemia si è infatti posto un forte accento sulle nuove modalità tecnologiche di contenimento e osservazione del virus, guidate dallo sviluppo dell’ormai nota app Immuni da parte di Bending Spoons per conto del governo italiano, a risultare prevalenti tra i privati sono invece i “vecchi metodi”. Più della metà dei rispondenti che segnala una raccolta di dati da parte del datore di lavoro, infatti, indica che la raccolta in questione è avvenuta tramite moduli cartacei, più facili da gestire, come evidenziato in Figura 7.
A partire dai dati raccolti, si può quindi ipotizzare una discreta diffusione di pratiche di vero e proprio tracciamento dei contatti tra le aziende italiane, con percentuali intorno al 10% del totale delle aziende italiane, pur se una misura molto più ampia, oltre il 30%, sembra aver raccolto qualche tipo di dato sui propri dipendenti in occasione della pandemia.
Bisogna però evidenziare come la larghissima maggioranza dei contributi si riferisca a regioni del Nord Italia, rendendo difficile estendere le conclusioni raggiunte a tutto il Paese. Tuttavia, una serie di casi di sviluppo di metodi per il tracciamento dei contatti da parte di aziende individuali fa pensare che il contact-tracing sia stata una pratica mediamente diffusa anche prima degli interventi pubblici a riguardo.
Casi reali: esempi di contact-tracing in azienda
Al di fuori delle iniziative adottate dall’esecutivo italiano, tra le quali la più celebre è l’applicazione Immuni, una serie di altre aziende ha adottato – spesso in anticipo rispetto al Governo – soluzioni alternative per il tracciamento interno dei contatti. Tra questi casi si possono rinvenire alcuni elementi in comune:
- sono tutte strategie e/o applicazioni adottate prima dell’adozione a livello nazionale di Immuni o adottate per complementare Immuni stesso;
- sono soluzioni adottate a livello aziendale per poter monitorare eventuali contagi all’interno dell’azienda.
Se le strategie, come vedremo, sono state adottate anche da grandi aziende, le applicazioni digitali sono spesso state sviluppate e implementate da startup emergenti. È il caso, ad esempio, di AzzurroDigitale, startup fondata da tre giovani padovani, che aveva già messo a punto un software (Advanced workforce management system, o Awms) per ottimizzare la gestione degli operai in fabbrica. Nel 2020, con lo scoppio della pandemia, AzzurroDigitale ha convertito il proprio programma per gestire l’emergenza sanitaria all’interno dell’azienda. Il software prevede che ogni giorno i dipendenti debbano rispondere a tre domande:
- Come stai?
- Come stanno le persone che vivono con te?
- Sei stato in un luogo affollato?
Le risposte vengono, poi, prontamente integrate con i parametri definiti dai controlli aziendali, come la misurazione della temperatura tramite termo-scanner. A quel punto, ad ogni lavoratore viene assegnato un “semaforo”, verde o rosso, che permette o meno l’accesso al luogo di lavoro.
Ma il software di AzzurroDigitale non è l’unico presente nel panorama italiano. Infatti, anche altre startup hanno sviluppato sistemi digitali per il distanziamento sociale.
Una di queste è Builti, startup bolognese che ha implementato Mind the gap. Questa applicazione, basata sulla tecnologia Bluetooth e pensata specificamente per i luoghi di lavoro, non solo aiuta l’utente a mantenere il distanziamento sociale (tramite una vibrazione dei telefoni di due soggetti eccessivamente vicini), ma è anche in grado di registrare i contatti sotto soglia di sicurezza e, in caso di positività, di offrire uno strumento per avvisare i soggetti a rischio e attuare i piani di emergenza. Tra le varie aziende che hanno implementato questo tipo di applicazioni si annoverano anche grandi realtà nazionali come Ferrari ed Electrolux.
Tuttavia, tale fenomeno non è solamente italiano. Basta una semplice ricerca su Google per scoprire che tra le richieste più gettonate figura “covid tracking apps for employers” (app di tracciamento per datori di lavoro). I risultati includono lunghe liste di applicazioni o software digitali facilmente implementabili e che promettono di essere un ausilio concreto ai datori di lavoro per poter mantenere sotto controllo la diffusione del virus.
Tra le applicazioni più menzionate vi è quella sviluppata da PricewaterhouseCoopers (PwC). Questo strumento sarebbe in grado di controllare quali impiegati sono a contatto tra di loro e, di conseguenza, allertare l’ufficio di risorse umane su chi effettivamente è a maggior rischio di contrarre il Covid. Più nello specifico, al lavoratore viene chiesto di scaricare l’applicazione sul proprio telefono; una volta scaricata, l’app richiede all’utente l’indirizzo email e l’accensione di Wi-Fi e Bluetooth. Ogniqualvolta l’utente si trovi sul posto di lavoro, lo smartphone si trasforma dunque in un “osservatore” che raccoglie informazioni sull’ambiente circostante. Il software analizza i segnali e individua quali altri impiegati si sono trovati in prossimità dell’utente e la durata del contatto. Dopodiché, le informazioni raccolte sono inviate direttamente ai datori di lavoro, permettendo loro di prendere decisioni sulla disposizione interna degli uffici, su eventuali chiusure aziendali e, eventualmente, anche sul grado di produttività dei propri dipendenti. PwC ha reso obbligatoria l’app internamente alla propria azienda ed ha dichiarato di essere interessata a venderla ai propri clienti.
Le scelte delle summenzionate aziende, giustificate dal desiderio di salvaguardare nel contempo i propri lavoratori e il profitto della propria azienda, sono state criticate a causa del mancato equilibrio tra i due tipi di interessi in gioco.
Quanto pesa il profitto dell’azienda sul diritto alla privacy del singolo individuo? Questo tipo di applicazioni possono essere rese obbligatorie? Cosa succede se il singolo lavoratore si rifiuta di scaricare ed utilizzare un’applicazione del genere? Se da una parte si può dibattere sulla supremazia del benessere della collettività sul singolo, dall’altro ci si chiede quanto questo possa influire sul diritto al lavoro – soprattutto se queste applicazioni vengono utilizzate per tracciare la produttività lavorativa – e quanto sia legittimo l’utilizzo di questo tipo di strategie da parte di enti privati, specialmente quando non supportati dalle loro controparti pubbliche.