Geografie digitali di esclusione

Di: Camilla Quaresmini
Quando parliamo di Internet siamo ormai consapevoli del fatto che questo sia un mondo con una cultura, un’economia, un’etica e una politica proprie. Si pensi, ad esempio, alla cybercultura, alle criptomonete, e alle problematiche etiche e politiche che avvolgono tutte queste dimensioni. Chi più chi meno, siamo tutti informati e coscienti, anche grazie al fiorente dibattito contemporaneo, della non neutralità dell’ambiente di Internet. Sembra esserci tuttavia una scarsa consapevolezza attorno ad una precisa dimensione di Internet, quella spaziale. Internet ha infatti anche un proprio spazio.
La questione della dimensione spaziale di Internet non è attualmente molto discussa, né sembra essere di particolare interesse. Tuttavia è fondamentale indagarne i concetti chiave per capire il suo enorme impatto, in vista di un discorso sul digitale sempre più consapevole. Anche se parlando di dimensione spaziale di Internet la prima cosa che ci viene in mente è probabilmente una mappa digitale come quella offerta da Google Maps, lo spazio a cui stiamo pensando ora non si esaurisce in un mero concetto geografico. L’aspetto geografico è infatti inserito in una cornice epistemologica con forti declinazioni geopolitiche.
La riflessione che segue prende avvio dalla base geografica dello spazio di Internet: le mappe digitali. Introduciamo più precisamente il discorso attraverso una necessaria problematizzazione dello strumento della mappa in generale.
La maggior parte di noi tende a vedere le mappe come strumenti affidabili, dotati di una oggettività intrinseca ed indiscutibile. In realtà, pur rappresentandolo, le mappe non sono il territorio. Questo concetto non è nuovo: si pensi alla famosa questione della rappresentazione dell’Africa nella mappa di Mercatore. Le distorsioni geometriche che caratterizzano il continente in questa rappresentazione hanno una natura ben precisa. La mappa in questione risale infatti all’epoca del colonialismo europeo, caratterizzata da una forte logica di supremazia che mira ad annullare ed invisibilizzare le popolazioni conquistate. L’occupazione colonialista, infatti, nega la cultura dei popoli assoggettati, e con essa ne nega anche la territorialità, portando all’affermazione di rappresentazioni che in realtà sono distorte come oggettive e neutrali.

La soggettività di tale rappresentazione risulta evidente se la confrontiamo con un’altra mappa, la proiezione di Gall-Peters, che invece conserva le aree, opponendosi all’eurocentrismo della carta di Mercatore. Qui la realtà appare ben diversa: le dimensioni di alcuni specifici territori, in particolare il Brasile e l’Africa, cambiano drasticamente.

È chiaro dunque che non ci troviamo di fronte ad una fotografia oggettiva del mondo, quanto piuttosto ad una rappresentazione di territori e culture osservati da un determinato punto di vista, a sua volta inserito in una determinata cultura, con uno scopo ben preciso, e chiare dinamiche di potere geopolitico.
Se già le carte hanno obiettivi ideologici mirati e definiti, una simile problematicità riguardante le finzioni e le potenzialità delle rappresentazioni geografiche si riflette – e si amplifica – nelle geografie digitali. Ma chi è il responsabile di un simile errore ontologico by design? La risposta potrebbe essere: i responsabili siamo noi, in quanto oggi tutti possiamo essere geografi digitali, e siamo dunque noi che diamo forma allo spazio trasformando una mappa in territorio. E purtroppo, come accadeva già per le carte, anche le rappresentazioni geografiche digitali sono in gran parte prodotte da minoranze privilegiate che non contemplano, bensì escludono, la rappresentazione di comunità socialmente e/o politicamente oppresse, andando a determinare quelle che David Sibley chiama “geografie dell’esclusione”.
Quali territori rappresentano le piattaforme digitali? Non c’è bisogno di grandi studi per constatare che ci sono regioni estremamente coperte e altre no: basta aprire lo strumento Street View di Google e provare ad esplorare territori diversi. Intuitivamente si potrebbe pensare che la copertura nella rappresentazione geografica digitale dipenda dalla densità di popolazione del territorio in questione. Ciò seguirebbe dalla natura della piattaforma che raccoglie elementi (le fotografie dei luoghi su Google Maps) dagli utenti, che fa sì che un territorio più popolato tenda ad essere naturalmente più rappresentato online. Tuttavia, rispetto all’elevata densità di popolazione di alcuni territori, le mappe di Google spesso non sono dettagliate tanto quanto lo sono per altri territori ugualmente, o addirittura meno, popolati.
Introduciamo a questo punto il concetto di “Global South”, concetto che non è tanto geografico, quanto piuttosto una metafora della sofferenza umana causata dal capitalismo e dal colonialismo a livello globale. In quanto tale, questo esiste anche nel Nord geografico nelle forme di esclusione e marginalizzazione di intere comunità. Questa forte demarcazione sta alla base del concetto delle “Epistemologie del Sud” di Boaventura de Sousa Santos, sociologo portoghese che indaga la linea invisibile – ma profonda – che separa le società “metropolitane” (quelle del Nord) da quelle coloniali, linea su cui si basa il nostro pensiero teorico. Infatti da questa divisione deriverebbero anche le distinzioni che facciamo tra legale e illegale, tra conoscenze scientifiche, teologiche, filosofiche.

L’emarginazione del Sud globale è evidente nella già citata rappresentazione geografica di Mercatore. Di seguito possiamo vedere un altro esempio, tra i tanti, questa volta in un contesto di tipo accademico. La mappa che segue mostra infatti la distribuzione dei premi Nobel dal 1901 al 2022, evidentemente sbilanciata da un punto di vista geografico.

Le due maggiori piattaforme pubbliche che aggregano informazioni geografiche sono Google (con Google Maps e Google Earth, entrambi con l’opzione Street View) e Wikipedia. In un recente lavoro, Mark Graham e Martin Dittus ci mostrano come queste due piattaforme siano costruite su fondamenti epistemologici completamente diversi. Google infatti è un’organizzazione centralizzata che produce rappresentazioni eterogenee del mondo, mentre Wikipedia, pur essendo relativamente decentralizzata, produce tuttavia rappresentazioni estremamente centralizzate. La loro diversa natura epistemica influenza chiaramente il modo in cui entrambe creano conoscenza, e infatti le rappresentazioni risultanti sono molto differenti.
In questo contesto è opportuno notare come, nella sua architettura del mondo, Google lasci però spazio anche a realtà complesse consentendo, in alcune situazioni, la coesistenza di più di una prospettiva. Questo avviene, ad esempio, quando ci si trova di fronte alla rappresentazione di territori contesi, come nel caso della Crimea. A seconda del luogo in cui ci si trova mentre si utilizza Google Maps, infatti, i confini della penisola sono contrassegnati in modo diverso.

Anche l’accessibilità delle piattaforme – geografiche e non – digitali pone sfide epistemologiche non indifferenti. La pervasività delle piattaforme di comunicazione in Paesi diversi, infatti, forma anch’essa geografie differenti. Gli utenti che creano e condividono informazioni geografiche – banalmente: i turisti – si concentrano in determinate aree della città, in alcune zone piuttosto che in altre dello stesso Paese, se non addirittura in determinati Paesi piuttosto che in altri. Questo intuitivamente riflette una massiccia circolazione di contenuti geografici riguardanti determinate aree geografiche a discapito di altre.
La geolocalizzazione capillare di queste piattaforme si estende anche all’ambiente naturale. Un esempio è il progetto Trek di Google, che utilizza la tecnologia di Street View applicata a contesti extraurbani, in particolare alpinistici. Come per la maggior parte delle applicazioni dell’IA, anche questo strumento è controverso e ha una doppia faccia. Può infatti portare verso un certo tipo di inclusione: chi vorrebbe – ma non può – esplorare il Monte Bianco dal vivo, ora non si vede più totalmente preclusa questa esperienza. Può “farlo” comodamente da casa, su un qualsiasi dispositivo.

Pur non essendo chiaramente un’esperienza che si avvicina a quella reale, diventare un Google trekker può essere forse meglio di niente. Forse, perché sorge spontanea una domanda: una geolocalizzazione così capillare – fatta da un’azienda privata – ha davvero senso anche in ambiente naturale?
Inoltre, non essendo limitata ad esplorazioni outdoor, bensì estendendosi anche a quelle indoor, la stessa tecnologia viene utilizzata anche dai musei per tour virtuali, soprattutto dall’avvento del Covid. Si tratterebbe in questo caso di garantire una maggiore inclusione, nella fruizione culturale, di chi non potrebbe in altro modo permettersela.
La natura esclusiva dell’odierna produzione di conoscenza geografica ha anche un aspetto linguistico, nel senso che alcune lingue sono molto più utilizzate di altre nelle rappresentazioni geografiche digitali. Di conseguenza esistono più contenuti accessibili in alcune lingue, e meno in altre. In particolare, chiaramente, i parlanti delle principali lingue del Nord del mondo hanno accesso ad una quantità di contenuti di gran lunga maggiore dei parlanti di altre lingue globali. Un esempio riguarda il contenuto di Wikipedia che non è disponibile, nella sua totalità, in lingue diverse. L’inglese in particolare è la lingua più ricca di contenuti per molti paesi in tutto il mondo.
Navigando sulla piattaforma, infatti, chi parla inglese avrà accesso a più informazioni rispetto a chi parla altre lingue.


La prevalenza globale di alcune lingue coloniali riguarda anche le geografie linguistiche di Google Maps, l’utilità del quale dipende fortemente dalla posizione degli utenti, che se dovessero parlare ad esempio hindi o bengalese non potrebbero navigare nella loro lingua madre nella maggior parte del mondo.
In uno spazio tutt’altro che neutrale come quello di Internet, è importante chiedersi chi può partecipare alla creazione della conoscenza – in questo specifico caso geografica – e quali prospettive sono presenti nelle rappresentazioni che ci vengono presentate come oggettive. In generale, anche se c’è qualche sforzo per decentralizzare i sistemi di conoscenza geografica – ad esempio OpenStreetMap, sistema aperto che tuttavia presenta contributi soprattutto occidentali – le rappresentazioni geografiche sono caratterizzate da un’ambizione universalizzante che andrebbe contestata, assieme alla credenza che la conoscenza geografica può essere raccolta visivamente in modi automatizzati e che questo costituisce una fotografia oggettiva e a-politica del mondo.